Di ergastoli, lavoratori invisibili, dignità negate e civiltà

Se qualcuno si stesse chiedendo se quello comminato oggi all’uomo processato per l’omicidio della 32enne Raluca Elena Serban sia il primo ergastolo di sempre al Palazzo di giustizia di Aosta, la risposta è “no”. Andando indietro nel tempo, nel 2010 il carcere a vita era stato inflitto anche ai due imputati di aver ammazzato il pizzaiolo di Fénis Armando Tealdi e nel 2012 ad un accusato dell’uccisione dello scultore aostano Paolo Morandini (tra l’altro, tutte pene divenute definitive). Al di là dell’aspetto statistico, sul processo chiusosi oggi non ritengo di aggiungere nulla. Le tesi sostenute in aula da accusa e difesa e le reazioni dei legali coinvolti sono nell’articolo su Aostasera, che include anche il video della lettura della sentenza, in un’ottica di sempre maggiori contenuti ai lettori. Peraltro, non va dimenticato che la pena è tale quando la sentenza diviene definitiva e quello odierno era solo il primo grado di giudizio.

Piuttosto, in una lettura derivata (e quindi necessariamente più ampia) della vicenda aostana, si può (e si deve) parlare di uno Stato che, malgrado il calendario sulla parete segni 2022 (e non più il Medioevo), continua a non mettere le lavoratrici e i lavoratori del sesso nelle condizioni di operare con i diritti e le prerogative riconosciuti ad altre professioni. Nonostante un numero elevato di uomini (e crescente di donne) cerchino incontri a pagamento, Governo e Parlamento non si pongono il tema di una cornice normativa e tecnica in cui inquadrare la prostituzione. Certo, ne sono vietati lo sfruttamento e il favoreggiamento, ma per tutti coloro che quell’ambito lo scelgono, in una logica (com’è giusto che sia) di libero arbitrio? Un’immobilismo che non solo lascia intravedere un moralismo di marca cattolica stridente con la laicità formale dello Stato, ma che mantiene pure l’Italia al palo, in termini di civiltà, rispetto ad altre realtà europee.

Oltretutto, portare la prostituzione fuori dalla “zona grigia” in cui è confinato oggi chi la pratica consentirebbe tutele come i riposi e i controlli sanitari per quelle lavoratrici e lavoratori, ma anche l’imposizione fiscale (su flussi finanziari ad oggi del tutto estranei al Pil del Paese) ed opzioni quali il ricorso a strumenti moderni, ad esempio per accettare i pagamenti. Inoltre, eviterebbe una “ghettizzazione” che alimenta solo “effetti collaterali”, quali un mercato degli affitti anomalo. Strumentalizzare vicende giudiziarie non è corretto, quindi nessuno può azzardarsi a sostenere “tout court” che Raluca Elena sarebbe ancora viva se non si fosse trovata nella condizione di nascondere del denaro contante in casa. Però, ciò che deve essere fonte di vergogna per questo Paese è di averle negato, nella sua giovane e breve vita, la dignità di un lavoro. Quell’entità che, come recita la Costituzione, è alla base della Repubblica.

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