Omicidio Nirta, perché è un male che (ad oggi) resti irrisolto


“Sono povera, ma non sono un assassina”. Lo ha detto, in una delle ultime udienze del processo finito oggi, giovedì 5 maggio, la donna accusata di avere ucciso il suo allora compagno, il pluripregiudicato Giuseppe Nirta, morto a colpi di pistola il 9 giugno 2017, ad Aguilas, in Spagna, mentre la coppia rincasava. La giuria popolare del Tribunale di Murcia le ha dato ascolto, assolvendola dall’imputazione di omicidio: le prove non sono apparse sufficientemente solide per condannarla.

Nirta, 52 anni nato a San Luca (Reggio Calabria), aveva precedenti nel narcotraffico ed era stato coinvolto nell’operazione “Minotauro” del 2011 a Torino, sull’infiltrazione della ‘ndrangheta in Piemonte. Era il fratello di Bruno Nirta, detto “La Bestia”, condannato in appello nel 2021 quale “coordinatore” della “locale” di Aosta al centro del processo “Geenna”. Un nome di famiglia che è l’insegna della ‘ndrina La Maggiore, o Scalzone, accreditata da diverse fonti come la più influente di sempre nell’organizzazione criminale calabrese.

Sono proprio gli avvistamenti in Valle nel 2014 di Giuseppe (da non confondere con l’omonimo cugino, classe 1952, stabilitosi nella nostra regione da tempo) ad accendere una spia d’allarme sulla console dei Carabinieri del Reparto operativo del Gruppo Aosta. Mancava da tempo tra i monti di nord-ovest, a quel tempo risultava dimorare attorno a Torino (quindi non lontano) e, negli spostamenti nella Vallée, appare intrattenere legami con “soggetti valdostani di origine calabrese contigui” alla ‘ndrangheta, “alcuni dei quali avevano dato prova di essere vicini alle famiglie dei Facchineri di San Giorgio Morgeto” (Reggio Calabria).

Parliamo, tra l’altro, di Francesco Mammoliti, altro condannato in “Geenna” quale “partecipe” del sodalizio aostano. Per l’Arma, in una delle annotazioni redatte durante l’inchiesta, “dall’esito delle risultanze investigative derivanti principalmente dalle attività tecniche di intercettazione telefonica, è emerso che Giuseppe Nirta (classe 1965) ha creato o è comunque inserito, in Valle d’Aosta, in un gruppo criminale dedito a traffici vari, nonché al traffico di sostanze stupefacenti, ambito questo nel quale si destreggia agevolmente, così come documentato dalle attività investigative che lo hanno visto protagonista”.

I sette colpi di arma da fuoco che, in quella sera dell’estate di cinque anni fa, mettono fine alla sua vita, mentre scende dalla sua Alfa 147 in compagnia della donna con cui intratteneva una relazione da circa un anno e mezzo, lo fanno uscire di scena prima che gli inquirenti italiani possano muovergli qualsiasi contestazione rispetto all’indagine sulla cellula mafiosa valdostana. Il blitz di “Geenna”, in cui finisce in manette anche suo fratello Bruno (alla cattura, a San Luca, collaborano anche i “Cacciatori di Calabria” dei Carabinieri) scatta la notte del 23 gennaio 2019.

In quel tempo è già anche caduta la prima ipotesi degli investigatori iberici che cercano di fare luce sull’omicidio. Riguarda il sottobosco del narcotraffico e ruota attorno ad un ex affiliato della Mala del Brenta, stabilitosi in Spagna da lungo tempo. E’ in carcere, per scontare una lunga pena, ma nel giorno del crimine risulta in permesso premio, dopodiché si dà alla fuga. Verrà arrestato, assieme ad altre persone supposte averlo aiutato a nascondersi, ma gli addebiti ipotizzati nei loro confronti vengono meno nel giugno 2018.

Da quel momento, prende quota la tesi investigativa legata alla donna finita a processo ora. Dopo alcune perizie, la Guardia Civil conclude che sarebbe lei, addirittura, ad aver premuto il grilletto, sostenendo la tesi con la presenza di polvere da sparo su alcuni suoi indumenti (nella foto, un sopralluogo con lei sulla scena del crimine). La giuria, però, non sposa la conclusione e propende per l’assoluzione, nonostante la roboante richiesta di 21 anni di reclusione dell’accusa. Cinque anni dopo, l’assassinio di Giuseppe Nirta resta così irrisolto. La sua storia personale è il motivo stesso per cui è un male che non si sia arrivati a chi gli ha sparato, ma soprattutto perché. Risposte che avrebbero fatto piacere – è perfin scontato pensarlo – soprattutto agli investigatori valdostani.

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