I Facchineri, dalla Calabria alle Alpi: diaspora di una ‘ndrina di ‘ndrangheta

Qual è il percorso che porta dall’essere una “storica ‘ndrina che opera a Cittanova (Reggio Calabria) sin dalla fine dell’Ottocento” (per dirla con Wikipedia) al rango di famiglia di ‘ndrangheta “meglio rappresentata in Valle d’Aosta” (stando agli atti dell’accesso antimafia al comune di Saint-Pierre nel 2019), con propaggini in tutta Italia ed una specializzazione nelle estorsioni (come emerso dal processo “Tempus Venit”, su quanto accaduto nel 2011 durante la costruzione del parcheggio sotterraneo “Parini” ad Aosta, e come rilanciato dalla Dda di Brescia con l’operazione “Atto Finale”, condotta soltanto pochi giorni fa)?

La domanda riguarda i Facchineri ed una risposta si rinviene nella sentenza del processo “Altanum” del Gup di Reggio Calabria Vincenza Bellini, giunta a fine dicembre 2020. Quel verdetto, sulle “frizioni” tra la ‘ndrina e la “locale” avversaria dei Raso, ha condannato, tra gli altri, l’uomo considerato recente capo del sodalizio, Giuseppe Facchinieri detto “Il Professore” (nella foto il suo arresto, nel luglio 2017), a 16 anni di reclusione per associazione di tipo mafioso (nel 2014 era già stato ritenuto colpevole dell’estorsione ai danni degli imprenditori Tropiano nella vicenda aostana). L’ultimo accertamento giudiziario (benché ancora di primo grado) dell’esistenza di un clan per cui – lo ricorda il procuratore Nicola Gratteri nel suo “Fratelli di sangue” – 20 persone affiliate al gruppo di Giuseppe Facchineri vennero processate alla Gran Corte delle Calabrie nel 1916.

La scia di sangue infinita

Nelle motivazioni viene infatti delineata la diaspora del sodalizio criminale, dal comune alle pendici dell’Aspromonte verso Puglia, Umbria, Lazio (dove esponenti hanno intrattenuto contatti con Enrico Nicoletti, testoriere della Banda della Magliana), Emilia-Romagna, fino ai piedi delle Alpi di nord-ovest. La ricostruzione (come ci si attende da un Tribunale) avviene attraverso atti giudiziari, a partire dal processo denominato “La mafia delle tre province” (iniziato alla Corte d’Assise di Palmi e dalla sentenza divenuta irrevocabile nel 1997), che riguardava, tra l’altro, “plurimi omicidi nella faida di Cittanova tra gli Albanese-Raso-Gullace da un lato e i Facchineri dall’altro”, tutti “risalenti agli anni ‘70”. Una scia di sangue infinita, che fino al 1980 vedrà susseguirsi 32 uccisioni ed altri 27 morti tra il 1987 e il 1991.

Tutto inizia con un furto di animali

In questa lettura dei fatti, l’inizio della guerra tra i due gruppi familiari è ricondotto “al 19 marzo 1971 data in cui in un bar di Cittanova veniva ucciso Albanese Antonio ad opera di Facchineri Luigi (poi ucciso nel 1991, a sua volta), esponente del clan contrapposto”. La causa? “Un furto di animali operato dagli Albanese a danno dei Facchineri in risposta ad uno sconfinamento degli armenti nel territorio degli Albanese medesimi”. Ad alimentare la “cruenta guerra di mafia, volta ad assicurare ai due gruppi contrapposti lo sfruttamento del territorio”, era l’“inesorabile e barbaro meccanismo delle reciproche vendette”.

Se sei amico di uno ti devi guardare dagli altri”

Una “contrapposizione netta e rigorosa”, che ha condizionato anche la vita quotidiana egli abitanti del piccolo centro pre-aspromontano, “talvolta involontariamente coinvolti nella faida”. Lo testimonia una conversazione intercettata nel 1989: “...perché se sei amico di uno ti devi guardare dagli altri…. Per aiutare una baracca, però l’altra baracca è contro di te”. Una tregua arriva nel 1979, quando le parti s’incontrano addirittura davanti a un notaio: sottoscrivono un atto in cui è inclusa, tra l’altro, la revoca della costituzione di parte civile degli uni in un procedimento a carico degli altri.

Gli Albanese però riprendono le ostilità: volevano anche che la testimone coinvolta nel processo ritrattasse le accuse, cosa che non accadrà. L’esito? “Invero, – si legge nelle carte – mentre in un primo tempo i Facchineri avevano avuto il sopravvento sugli avversari ed avevano consolidato il proprio potere sul territorio dedicandosi, dopo aver abbandonato la pastorizia, anche ad attività imprenditoriali” (una sentenza parla di un impianto di trasformazione di materiale inerte), successivamente, “sul finire degli anni ‘70, la guerra si è risolta a favore degli Albanese-Raso-Gullace”.

Sconfitti e cacciati

Così, i Facchineri, “scacciati da Cittanova, si sono spostati nei territori dei comuni vicini” di San Giorgio Morgeto e Giffone, nonché nelle altre regioni d’Italia in cui li si ritrova in successivi fatti di cronaca e “da dove hanno continuato ad alimentare la loro guerra personale con i vecchi avversari” (nel secondo “round” della faida, quello di fine anni ‘80). La suddivisione territoriale che pone fine alla guerra tra le due famiglie di ‘ndrangheta è frutto – si legge in alcune carte – di una più complessa ed articolata strategia criminale gestita dalle maggiori cosche della Piana di Gioia Tauro, i Piromalli-Molé su tutti, quale “risposta al momento di emergenza vissuto dalle organizzazioni criminali a causa del fenomeno, allora nascente, ma certamente divenuto già allarmante” per i boss “delle collaborazioni con la giustizia”.

I “germi dell’odio”

Nella faida, oltre al prezzo di vite che ha comportato e agli innumerevoli delitti commessi, le sentenze individuano responsabilità “anche di natura morale, per i germi dell’odio che” i contendenti “hanno seminato tra i loro giovani e che altri lutti hanno provocato”, nonché per l’abbrutimento morale al quale sono state costrette le loro stesse giovani generazioni, brutalmente cresciute randagie e sconvolte da una realtà che ne ha reciso le vite ancor giovani o che le ha private delle serene speranze della giovinezza, mortificate da un odio tribale ed in attesa solo dell’età adulta per prendere parte attiva all’eccidio”. Infine, “per l’imbarbarimento della vita di un’intera comunità, nota all’esterno solo per l’efferata violenza dei loro delitti”.

Le orme del “Professore”

Un clima al quale il “Professore” non sfugge. Giuseppe Facchinieri (traslitterazione leggermente diversa, per errore anagrafico) è figlio di Francesco (classe 1927), ucciso il 16 febbraio 1977, e fratello di Salvatore (classe 1959), vittima di omicidio nel 1980. Lui stesso, a 20 anni, il 1° ottobre 1980, sfugge ad un agguato, in cui perdono la vita due suoi congiunti. In quell’occasione, accusa del delitto esponenti del clan avversario, tra i quali Elio Mamone, fratello di Giuseppe Mamone. Per l’omicidio di quest’ultimo il professore viene ritenuto responsabile dalla Corte d’Assise di Palmi nell’ottobre 1991 (uccisione confermata in Appello e commessa “trovandosi in stato di latitanza, a riprova della sua spiccata e spregiudicata pericolosità sociale”).

La diaspora, peraltro, si legge in un’altra sentenza del 1988, “non ha invero minimamente intaccato l’unità della cosca, che ha continuato a muoversi seppure in territori anche lontani come un unico blocco armato e sanguinario”. Così, il Gup Bellini osserva che Giuseppe Facchinieri, sebbene non più residente al sud per lungo tempo, “fosse radicalmente collegato con la sua terra ed avesse mantenuto […] un viscerale sentimento di appartenenza alla Calabria”. Quel sentimento, negli anni, lo “porterà ad agire ‘per questioni di principio’ prima ancora che di profitto, come si vedrà nell’ambito della vicenda dell’estorsione posta in essere in Valle d’Aosta ai danni degli imprenditori Tropiano, originari di San Giorgio Morgeto”, indagata dai Carabinieri del Reparto operativo del Gruppo Aosta. Il resto, sul suo conto, è storia nota, fatta dei processi “Tempus Venit” e “Altanum” e del carcere.

Laitatando sulla Croisette

Le fasi successive alla faida (affiorata pure nello sceneggiato tv “Un bambino in fuga”, andato in onda sulla Rai nel 1990) appaiono caratterizzate, nella vita criminale dei due gruppi, “dallo stato di latitanza di alcuni esponenti dei clan mafiosi”. Tra costoro vi è Luigi Facchineri (classe 1960), cugino di Giuseppe. Viene catturato nel lusso di Cannes (in Francia) nel settembre 2002, dopo essere stato cercato per 15 anni (una rara foto dell’epoca lo ritrae all’arrivo al tribunale di Grasse). Un processo del 1999 ad alcuni suoi fiancheggiatori, però, racconta che parte della sua latitanza era trascorsa proprio a San Giorgio Morgeto. Da una successiva indagine della Dda di Reggio Calabria emergono anche altri dettagli. Indagando su Domenico Raso (detto “Mico u Zuccaro”), padre dei fratelli Michele, Salvatore e Vincenzo Raso (che torneranno in primo piano nella vicenda del parcheggio “Parini”, come coloro cui gli imprenditori Tropiano si rivolgeranno per “chiedere aiuto”, dopo la richiesta di denaro avanzata dai Facchineri), gli inquirenti mettono a fuoco altri elementi considerati d’interesse per la lettura complessiva dei fatti.

L’inchiesta restituisce infatti – tra le presunte condotte finalizzate a garantire la latitanza di Luigi Facchineri (che, chiuso il suo conto con la legge, risulta essersi stabilito in Valle d’Aosta) – la “concertazione, poi non concretizzatasi, della realizzazione di un bunker in San Giorgio Morgeto, che avrebbe dovuto essere appunto utilizzato” dal fuggiasco. La struttura era “da realizzare in contrada Torre”, nei pressi “di un frantoio riconducibile alla famiglia Tropiano”, proprio gli imprenditori taglieggiati dal “Professore” nel 2011 (assolti, in “Tempus Venit” dall’accusa iniziale di favoreggiamento). “Mico u Zuccaro” (di un ramo dei Raso risultato privo di collegamenti con gli omonimi protagonisti della faida) viene assolto da quell’accusa, ma era – stando all’inchiesta – “da sempre indicato come uno degli storici fiancheggiatori dei Facchineri, incaricato di mantenere i contatti” con Luigi durante la latitanza, finita improvvisamente sotto le palme della Croisette. Là, dove avrebbero commentato la diaspora e le sue ultime pagine con “tout se tient”.

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