Appello Geenna, l’infiltrazione riuscita e l’assoluzione dopo 909 giorni (di detenzione)

L’ora è tarda e le ultime notizie dalla Corte d’appello di Torino sono arrivate a serata ampiamente iniziata, oltretutto presentando una portata tale da richiedere un tempo di metabolizzazione non minimo. Tuttavia, due dati appaiono nitidi dalle sentenze di secondo grado del processo Geenna sulla ‘ndrangheta in Valle pronunciate lunedì 19 luglio nel palazzo di giustizia del capoluogo piemontese e procrastinarne una prima analisi non sarebbe nell’uso di questo blog. GiustiziAndO – giova ricordarlo oggi, più che in altre occasioni – nasce nell’intento di una lettura complessiva, oltre lo stretto perimetro della cronaca, degli accadimenti giudiziari salienti attinenti alla nostra regione, specie in fatto di criminalità organizzata.

Il primo elemento è nella certificazione – per il secondo grado di giudizio consecutivo – dell’esistenza di una “locale” di ‘ndrangheta ad Aosta (e se l’appello non è ancora definitivo, chiude la fase di merito del procedimento, giacché la Cassazione può essere adita solo per motivi di legittimità, per quanto dimenticare che sentenze come “Mafia Capitale” siano uscite riscritte proprio da quel vaglio sarebbe ingenuo). In sostanza, la tesi sostenuta dalla Dda di Torino, sulla base delle evidenze raccolte dai Carabinieri del Reparto operativo del Gruppo Aosta nelle indagini condotte dal 2014 al 2018, è stata ritenuta fondata dai giudici di due sezioni d’appello diverse, giunti alle stesse conclusioni del Gup di Torino e del collegio giudicante del Tribunale di Aosta che avevano avuto la responsabilità del primo grado.

In italiano moderno, significa che dopo aver ampiamente superato i confini della sua terra natìa e “scalato” buona parte del settentrione d’Italia (stringendo accordi per trafficare in stupefacenti nel resto del mondo), il cancro dell’organizzazione criminale calabrese aveva attaccato pure la Valle d’Aosta, terra ritenutasi al riparo dal fenomeno mafioso per lungo tempo. Se per gli inquirenti tale dato può essere motivo d’orgoglio, per i valdostani deve (ma più appropriato, come si capirà in seguito, sarebbe l’uso del condizionale, dovrebbe) rappresentare fonte di indignazione. Quanto accaduto, e cristallizzato dai verdetti odierni, è oggettivamente grave (le pene per alcuni imputati a giudizio con il dibattimento ordinario sono state ridotte, ma restano elevate), ma soprattutto è deleterio – e deve far pensare – che sia potuto succedere nell’indifferenza quasi generale.

Non solo della politica, che insegue da sempre il consenso e quindi percorre rotte di massima distanza dai temi che non ne assicurano (e, nel caso specifico, non avrà certo tratto giovamento dal “dialogo privilegiato” di parte di essa con la “locale” evidenziato dall’inchiesta, tanto che sarà ora interessante seguire gli sviluppi dell’indagine “costola” di Geenna, quell’Egomnia relativa al presunto scambio elettorale politico-mafioso nelle elezioni regionali 2018), ma anche della cosiddetta “società civile”. Qualche eccezione c’è stata, ad essere onesti, ma il sentimento di apatia complessivo sul punto (figlio di un’attitudine di auto-rimozione, se non perfino di negazione, del problema mantenuta per troppo tempo) non ha mostrato flessione nemmeno una volta emersa l’inchiesta, con i dettagli su fatti e accuse.

Oltre ad aver profondamente innovato il modo di affrontare le mafie, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno spiegato con chiarezza senza eguali (e il destino ha voluto che la conclusione dei due filoni processuali d’appello coincidesse con il 29esimo anniversario della strage di via D’Amelio) che il contrasto al crimine organizzato di cui la magistratura è in grado possiede natura giudiziaria, ma che la lotta al malaffare si vince anzitutto affermando determinati valori di legalità, trasparenza e democrazia sul piano culturale. Se non si è attrezzati di consapevolezza, è impossibile condurre in porto tale affermazione, lasciando il contesto circostante in condizioni di vulnerabilità tali da rendere possibile l’infiltrazione.

Ottimale sarebbe che l’affermazione processuale dell’avvenuto insediarsi di una “locale” fosse spunto di un moto di riprovazione sociale tangibile ed evidente nella comunità, ma se non accade nel più brioso resto d’Italia, inverosimile è aspettarselo nella placida Valle d’Aosta, soprattutto in tempi pandemici che confrontano tanti a criticità non auspicabili. Lecito è comunque attendersi – indipendentemente dall’esito dei futuri ricorsi in Cassazione, già preannunciati – che la vicenda Geenna insegni ai valdostani il senso del vocabolo “consapevolezza”, che li porti ad essere più curiosi su argomenti del genere e a vincere la ritrosia ad esprimersi in merito. Se poi vogliamo esagerare, non sarebbe male che li conducesse, nelle loro vesti di elettori, a rifuggire determinate dinamiche di “voto a rendere” palesate dalle indagini. Se accadrà, però, sarà solo il tempo a dirlo. L’attesa è iniziata alle 19 di ieri.

L’altro dato lampante, restituito dai verdetti d’appello, è l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” di Marco Sorbara (al centro nella foto, tra i fratelli Cosimo e Sandro), l’ex consigliere regionale accusato di concorso esterno nell’associazione criminale e condannato per questo, in primo grado, a dieci anni di carcere. Dinanzi a questa notizia, senza scordare che la decisione potrebbe essere impugnata dalla Procura in Cassazione, la prima reazione non può che essere di soddisfazione per un imputato riuscito a chiarire la sua posizione, convincendo i giudicanti dell’estraneità alle contestazioni mossegli. Non è solo un fatto umano (anche se il livore resta tristemente oltre i livelli di guardia, soprattutto sui social), siamo di fronte al senso intimo della giustizia e del sistema giudiziario italiano: i processi si fanno per accertare se determinati fatti integrino un reato, o meno, con il conseguente pronunciamento.

In verità, la faccenda è maledettamente meno semplice di così. Il proscioglimento di Sorbara arriva dopo 909 giorni di detenzione (209 dei quali trascorsi in carcere) e una prima condanna rilevante, nemmeno troppo lontana da quelle pronunciate, nel medesimo processo, per le figure ai vertici della “locale”. Non solo, perché sospeso dalla carica di consigliere regionale per effetto della “Legge Severino”, al momento dello scattare della misura cautelare nei suoi confronti, Sorbara ha visto la sua carriera politica di fatto terminare in quel momento (anche se non si è dimesso dalle sue funzioni pubbliche, venute meno solo per il concludersi della legislatura) e le ricadute della vicenda sulla sua vita futura – anche se da oggi, riguadagnata la libertà, avrà modo di iniziare a ricostruire una quotidianità – si possono solo immaginare.

Tecnicamente, e teoricamente, occorrerebbe prima osservare che, rispetto ai tempi medi, il processo Geenna ha viaggiato rapidamente, per poi constatare (una volta di più) la natura fluida della fattispecie di concorso esterno e, infine, ribadire che il sistema giudiziario è organizzato su tre gradi proprio a garanzia dell’imputato. Un’affermazione, quest’ultima, destinata tuttavia a infrangersi immancabilmente contro la domanda più spontanea dopo le notizie di alcune ore fa (anche se la si sentirà pure da tanti di coloro che fino a ieri invocavano pene esemplari fede per il politico inquisito): ottenuta l’assoluzione, chi restituirà a Sorbara quei 909 giorni e tutto ciò che potevano essere, ma non sono stati? La risposta non è banale come sembra, anche perché non bisogna anzitutto scordare che la detenzione preventiva è stata asseverata da almeno due diverse pronunce di Cassazione (una con netto giudizio di “pericolosità sociale” dell’allora consigliere), dopodiché – mettendo al bando qualsiasi ipocrisia o brivido freddo tardivo – c’è da ammettere che l’interrogativo stavolta colpisce in Valle e appare lampante, ma si ripropone periodicamente da ben prima di Geenna, almeno dai tempi di “Tangentopoli” (1992 e dintorni). Ad oggi, detto con disarmante onestà, una risposta convincente non la si è sentita.

Le tifoserie, già scatenate, assicurano che la riforma della giustizia in cantiere in Parlamento sarà la panacea di tutti i mali, inclusi ovviamente questi, ma per garantire la guarigione del paziente occorrono una qualità del curante (la politica), e quel sano distacco basilare quando si maneggia una materia dalla quale si potrebbe essere coinvolti, che non paiono lampanti al momento (ma nemmeno in passato la classe dirigente nostrana ha brillato, visto che le criticità attuali sono, per dirla nella lingua degli atti giudiziari, risalenti). Chi scrive sarà felice di essere smentito, ma anche su questo versante l’attesa è per ora la sola opzione possibile (per quanto sia destinata ad aggravare il carico di chi si trovasse nella stessa condizione di Sorbara).

Tutto ciò detto, onestà intellettuale vuole che all’ex consigliere regionale dell’Union Valdôtaine si riconosca che la sua imputazione – a differenza dell’altra di concorso esterno (quella di Monica Carcea, conclusasi con una condanna a 7 anni di carcere, ulteriore elemento da cui l’accusa riceve una patente di fondatezza delle sue tesi, tanto più apprezzabile alla luce del perdurante commissariamento del comune di Saint-Pierre) – presentava i margini difensivi più ampi dell’intero processo, emersi sin dalle numerose udienze al Tribunale di Aosta (questo blog non ne fece mistero e la discussione pubblica del dibattimento di primo grado è ancora qui per essere riascoltata). Il risultato arrivato in serata dà atto di un lavoro difensivo infine finito nel centro del bersaglio, che sarebbe tuttavia riduttivo non individuare anche nel contributo dei legali visti all’opera in precedenti fasi del procedimento, come gli avvocati Corrado Bellora e Raffaele Della Valle (ad arringare in appello è stato il solo fratello, avvocato dell’imputato, Sandro Sorbara).

Per concludere, altrettanta onestà intellettuale spinge a ribadire una considerazione espressa su queste colonne dall’inizio del processo, per quanto dalla percezione ora resa complicata dalle ricadute emozionali dell’esito dell’appello. Quest’ultima sentenza afferma che alcune delle condotte alla base dell’imputazione di Sorbara, relative ai tempi in cui era assessore comunale nel capoluogo regionale, non sono fatti di reato (e sarà interessante leggere le motivazioni della decisione assolutoria, attese nel giro di 90 giorni, seppur il punto sia destinato ad essere rappresentato dall’inconsapevolezza dell’affiliazione alla ‘ndrangheta di colui con cui l’allora assessore comunale ha interagito, nella fattispecie il ristoratore Antonio Raso), ma ciò non toglie che vadano qualificate come inopportune per un amministratore pubblico, configurando la sua responsabilità politica, o gestionale. Anche questo dovrebbe essere oggetto di riprovazione dei valdostani, ma non lo sarà. Forse lo sarà che ci siano voluti 909 giorni di un imputato in detenzione per accertarlo, ma solo fino al prossimo tema del giorno, magari in tutt’altro campo. E l’interrogativo fondamentale, in fatto di giustizia, continuerà a riproporsi.

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