
Ogni anno, il 23 maggio, commemoriamo la strage di Capaci (nella foto, da Wikipedia) e il sacrificio non solo del giudice Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, ma anche dei tre uomini della sua scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ogni anno, il 23 maggio, leggiamo i loro nomi in pubblico e sottolineiamo il loro esempio nella lotta alla mafia, innalzandoli a drappo di legalità. Quell’“ogni anno” si ripete, con il 2021, da ventinove anni. Non sono pochi e, proprio per questo, ci chiamano ad un passo in avanti rispetto a tutto quello che abbiamo fatto ogni 23 maggio.
Se vogliamo che l’eredità lasciata dal magistrato antimafia abbia un senso, se vogliamo che la nebbia della retorica non avvolga irrimediabilmente l’anniversario del giorno in cui ha perso la vita, se teniamo ad evitare al giudice palermitano il rischio che corrono per loro natura le icone (diventare un’immagine sul muro, o sulla scrivania, destinata a fare da sfondo alle nostre vite), allora quest’anno dobbiamo trovare la forza di aggiungere, alla commemorazione, una domanda: quanto sventola alta in Italia, ventinove anni dopo l’esplosivo di Capaci, la bandiera della legalità?
La risposta è drammaticamente sotto gli occhi di tutti: ai minimi storici. Guardando alla Valle d’Aosta e dintorni, nello scorso anno sono arrivate le prime sentenze di sempre (per quanto di primo grado, ma di due Tribunali diversi: Aosta e Torino) a riconoscere l’esistenza di una “locale” di ‘ndrangheta sul territorio regionale, emanazione della famiglia Nirta (Scalzone). Quest’anno, invece, si è chiusa la prima indagine che abbia mai riguardato il condizionamento mafioso sull’elezione del Consiglio regionale. E’ a proposito della tornata 2018 e tra gli indagati vi sono tre ex presidenti della Regione.
Inoltre, all’inizio di questo mese, in un’operazione della Dda di Catanzaro è stato arrestato un avvocato residente ed attivo ad Aosta, figlio di colui che i Carabinieri ritengono il capo di una cellula ‘ndranghetista radicata da decenni sul litorale di Lamezia Terme. L’accusa? Concorso esterno in associazione di tipo mafioso, per essere stato la “mente legale” della cosca. In particolare, per aver gestito la società individuata quale “cassaforte” del sodalizio a suon di prestanome e intestazioni fittizie, così “oscurando” l’anziano boss.
Insomma, se da inchieste del passato erano affiorate le mire del crimine organizzato calabrese sulla Valle, – vedi “Gerbera” (2009, traffico internazionale di cocaina, con base operativa in Valle d’Aosta), “Tempus Venit” (2011, estorsione della famiglia Facchineri di Cittanova a danno di un imprenditore) ed “Hybris” (2012, intimidazioni da parte di persone con “stretti legami personali” con la famiglia Pesce, tra le più potenti di ‘ndrangheta) – quelle più recenti restituiscono una sua pervasività ed organicità, nel tessuto socio-economico valdostano, senza precedenti.
Un condannato quale “partecipe” della “locale” aostana sedeva nel Consiglio comunale del capoluogo regionale. Dei due colpevoli di concorso esterno, ex assessori comunali, uno era stato nel frattempo eletto in Consiglio regionale. Spostandosi sull’inchiesta per scambio elettorale politico-mafioso, la ‘ndrangheta, dicono le carte, non disdegnava di bussare alla porta di palazzo Regionale, fulcro reale della vita della comunità valdostana (vuoi per la disponibilità economica dell’amministrazione, vuoi per l’impareggiabile galassia di società partecipate che da essa emanano).
Eppure, ogni anno le celebrazioni di Capaci non sono mancate. Ogni anno sono stati letti i nomi delle vittime della malavita e di ogni forma di criminalità. E’ evidente che qualcosa – indipendentemente dall’esito dei processi – non abbia funzionato. Dov’è l’errore? La faccenda è maledettamente complicata, trasversale a più ambiti sociali e risalente nel tempo. Però, volendo cercare una risposta, potrebbe essere il caso di pensare che in Valle si sia letto poco Falcone, o se ne siano dimenticatetroppo in fretta due frasi, tratte dal libro-raccolta di interviste al magistrato dal titolo “Cose di Cosa Nostra” (1991).
La prima è: “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro… Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”. Gli ‘ndranghetisti non presentano un alone, come nel primo (tragico) spot italiano sull’HIV, anzi. Si “mimetizzano” conducendo vite apparentemente identiche a quelle di chi non delinque, portando i figli a scuola, coltivando passatempi, conducendo lavori in cui si muovono in ambiti frequentati da molte altre persone e non disdegnando, anzi ricercando, il contatto con il resto della comunità. Sanno bene che un’accresciuta inclusione li “umanizza” agli occhi del resto del mondo, rendendo ancora più plausibile la loro recita sociale (celebre è l’apologia del “bravo coltivatore d’arance”, nota in un caso di un boss al sud).
Sono le stesse “fotografie” agli affari di mafia, scattate nelle varie inchieste, a palesarlo. Le risultanze inquirenti, però, raramente fanno breccia nelle masse, o scaturiscono distanziamento sociale con i protagonisti. Bisognerebbe indignarsi, dinanzi a un magistrato che sostiene l’esistenza di una “locale” di ‘ndrangheta in Valle. Bisognerebbe prendere posizione, parlarne senza timori e agire per una risposta culturale, ancor prima che giudiziaria, perché quello è il vero terreno su cui si sfida la mafia. Eppure, con qualche notabile eccezione, niente di tutto questo è successo in Valle d’Aosta (dove il Comune di Saint-Pierre è ancora commissariato per infiltrazione mafiosa).
Tra chi preferisce il silenzio, chi ritiene meglio evitare il tema (inclusa la politica, anche se la recente adesione della Regione alla rete di sensibilizzazione di “Avviso pubblico” è un passo apprezzabile), chi dice di non essersi accolto di nulla e chi fa come se nulla fosse stato, una riflessione compiuta – intendendo con ciò esterna ai Tribunali o alle forze dell’ordine – sui fatti degli ultimi anni, ma soprattutto su alcuni degli scenari che lasciano intravedere (dalle indagini emergono fatti e condotte che pongono un tema di opportunità, ancor prima che di legalità), non la si è semplicemente sentita.
Elemento che porta dritti filati all’altra frase di Falcone che, da queste parti, meriterebbe maggior considerazione: “Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale”. Su questo, un esempio è chiarificatore. Parcheggiare in divieto di sosta è un’infrazione. Se capita una volta, può essere un errore, magari spiegabile. Farlo sistematicamente, vantandosene pure al bar, anche se non parliamo di un fatto di sangue denota (per la repulsione verso regole atte a garantire un vivere collettivo armonioso e la prevaricazione del prossimo al fine di procurarsi un vantaggio personale) una mentalità propensa ai canoni mafiosi, esattamente quella cui si riferiva Falcone nelle sue parole.
Ne consegue un concetto già emerso più volte in queste colonne, ma che oggi più che mai va ribadito: il primo livello di contrasto alla mafia è individuale. Il rispetto delle regole, l’intransigenza sui diritti (ma anche sui doveri, quando ci toccano), il non accettare consigli non richiesti e favori apparentemente immotivati (specie se si è investiti di una qualsiasi funzione pubblica, o di rappresentanza, foss’anche in una Pro Loco) sono l’antidoto omeopatico all’infiltrazione. Gli anticorpi di un tessuto sociale sono nella somma delle individualità “sane” che lo compongono. Se non ce ne sono a sufficienza, la mafia (e la ‘ndrangheta in particolare) è come l’acqua versata in un colapasta: trova immediatamente i buchi da cui passare.
La sera del 23 maggio 1992, quasi 19enne e patentato da poco, ero in giro in auto, come in buona parte dell’adolescenza. Notai un posto di blocco dei Carabinieri, in fondo a viale Piccolo San Bernardo al confine con Sarre, come mai ne avevo visti prima, per numero di pattuglie ed evidenza del dispositivo. Ignoro se, attualmente, in servizio ci sia ancora chi vi prese parte, ma dubito che in Valle d’Aosta, a oltre 1.000 km da Capaci, si ravvisasse una qualche minaccia, o esigenza operativa, legata all’accaduto. Immagino che lo Stato dislocò tutte le forze dell’ordine sul territorio, per mostrare una risposta immediata all’attacco subito. Immagino che gli stessi militari vollero mostrare, in circostanze tanto tragiche, in che squadra giocavano.
Ecco, per contrastare l’infiltrazione mafiosa in un tessuto intriso di disponibilità economiche significative, specialità istituzionali senza eguali (di cui le inchieste più recenti hanno mostrato evidenti contraddizioni, vedi le funzioni prefettizie in capo al Presidente della Regione) e dal comparto pubblico di proporzioni immani (Consiglio Valle, 74 Comuni e 8 “Unités des Communes”) bisogna anzitutto decidere in che squadra si gioca.
Dopodiché, occorre non avere paura di mostrarlo. Tutti i giorni e nella vita quotidiana, però. Non solo il 23 maggio. Dimostrando di aver capito cos’è successo a Capaci. Altrimenti, la bandiera della legalità non solo non salirà lungo la sua asta, ma rischierà di venire sostituita da una a tinte ben più fosche. Opporsi a determinate dinamiche non è comodo, può costare in termini di “quieto vivere” (anche professionale), ma se Falcone e gli altri caduti del tritolo di Cosa Nostra hanno lasciato in eredità una lezione è questa. Non la gara a chi li commemora di più.