
Gomorra è fenomeno con cui tutti coloro che si occupano di legge, prima o poi, sono venuti a contatto. Per questo, dopo essere stato al cinema a vedere L’Immortale, film spin-off della serie uscito il 5 dicembre, GiustiziAndO vi racconta cosa ne pensa.
Che Ciro Di Marzio sia ancora vivo, dopo il colpo di pistola ricevuto dal suo “frate” Genny Savastano nel finale della terza stagione di Gomorra, non può essere considerato uno spoiler, altrimenti non avrebbe senso logico essere qui a parlare di un film dedicato a lui. Detto questo, L’Immortale, nel suo intreccio a doppio – se non triplo – filo con la serie Sky, dimostra che la narrazione su Scampia e dintorni di Marco D’Amore, che della pellicola non è solo interprete, ma anche regista, ha raggiunto livello ed intensità tali da reggere senza affanni il grande schermo.
Spedito in Lettonia dal boss di turno a trattare carichi di cocaina (e non sapremo mai se il riscaldamento spento in sala per tutta l’ora e cinquanta della proiezione voleva conferire un tocco di realismo alle atmosfere artiche, o era il frutto di un banale guasto), Cirù si ritrova proiettato, dalla scia di bramosia e sangue che costantemente accompagna soldi e traffico di droga, nell’ennesima guerra in cui la posta in gioco è sempre e soltanto una: sopravvivere. Si scopre peraltro, anche se c’erano pochi dubbi, che questo era il suo destino sin dai primi mesi di vita, quando le viscere di Napoli lo inghiottirono in braccio a sua madre nel terremoto del novembre 1980, ma un pompiere lo ritrovò vivo alzandolo al cielo, come in un miracolo.
Di miracoloso, però, nella vita di quel figlio di nessuno trascorsa in una terra ove lo Stato troppo spesso risulta come le temperature nel bollettino meteo (“non pervenuto”), non c’è stato nulla, se non i repentini guizzi d’istinto per riaffermare quell’immortalità valsagli le stellette da camorrista (come gettarsi in mare, a dieci anni, per costringere i finanzieri a soccorrerlo, consentendo a un complice di fuggire in motoscafo con un carico di sigarette di contrabbando). Un quadro che riduce la sua esistenza a un codice binario (0 morte, 1 vita), per cui – come gli ricorda uno dei committenti del suo business di polvere bianca – “gente come noi non può permettersi il lusso di una famiglia”.
In verità, Ciro ne aveva una e chi segue la serie sa anche che fine ha fatto. Tuttavia, gli slanci affettivi – tutt’altro che estranei nella sua mente, anche nel film (che consideri la moglie di Virgilio destinata ad un futuro immeritato è evidente dal primo sguardo tra i due) – sarebbero il terzo simbolo del codice: non previsto e tale da mettere in discussione l’esito dell’algoritmo di sopravvivenza, quindi semplicemente li accantona. Passa oltre, riducendoli a pensieri che non durano più della boccata ad una sigaretta e che volano via mentre il fumo espirato disegna trame impalpabili nell’aria.
La recitazione di Marco D’Amore è il dna stesso del personaggio: aggiunge silenzi (o toglie parole, fate voi) e lancia sguardi nove volte su dieci indecifrabili. Eppure immobile, eppure vorticoso. L’errore che si potrebbe fare, anche per il gioco di rimandi alla serie (l’ultima volta che Ciro appare in gioventù sta arrivando a Scampia, per essere presentato a Don Pietro Savastano), sarebbe considerare il film una “puntata extra” della serie. Anche se la tavola è imbandita per una stagione con il terribile duo di Secondigliano nuovamente in trincea (e se volete sapere perché, andate al cinema), L’Immortale – concetto peraltro caro al cinema, sin dai tempi di Highlander – consacra definitivamente dei talenti ed una “nouvelle vague” del cinema italiano (e Salvatore Esposito ne fa parte, a pieno titolo). E’ vero che in Italia è la tv a santificare, e che Gomorra è stata venduta in 130 paesi, ma nel resto del mondo non è ancora così.
Stavolta, Ciro è una star, anzi una Stella. Con la s maiuscola: quella che sognava da bimbo, nei pochi momenti in cui lo si vede sorridere spensierato, finché la guerra in cui lo trascinò lo sgualcito padre putativo ritrovato in Lettonia la spense, immergendo la sua esistenza un buio senza fine (ed è forse per quello che una delle poche osservazioni dedicate dal protagonista al paesaggio di Riga riguarda proprio la luce per diciannove ore al giorno) e condannandolo all’odio perenne, anzitutto verso se stesso: il prezzo da pagare per essere l’Immortale.