
Era canicolare Londra, in quell’estate del 2006. Proprio come la Valle d’Aosta in questi giorni, ma per l’errabondo cronista (che allora era ancora uno stanziale addetto stampa ed associava quelle latitudini a pioggia e cieli grigi costanti) la sensazione era inedita. Non che quel viaggio abbia regalato la “caldazza” come unica esperienza nuova, tuttavia. In un pomeriggio di inizio luglio, avvolto da una poltrona del Vue Theatre di Leicester Square, ero a pochi metri dalla band che, una quindicina di anni prima, aveva schiuso i miei occhi di adolescente sui concetti di bellezza e di eleganza.
Il trovarmi dinanzi ad un idolo di gioventù, ma in una veste diversa da quella del fan, non era esperienza nuova, per la verità. Per quei lucidissimi visionari di Jam guidati da Ezio Guaitamacchi, avevo già intervistato Nick Mason (a Milano, nel 2005, quando lanciò il suo libro “Inside Out”), ero già stato in una stanza con Roger Waters e pochi altri colleghi (a Roma, sempre nel 2005, alla prima di “Ca Ira”), ma in quell’afosa giornata londinese avevo davanti i Pink Floyd. Nella line-up post-1987, quindi in tre, capitanati da David Gilmour, ma comunque i Pink Floyd.
E c’era qualcosa di ossimorico nell’essere seduti dinanzi a quei tre uomini di mezza età, intenti a fare sfoggio di dosi industriali di humor britannico (specie Wright e Mason). La mente era infatti subito corsa a quanto, eccezion fatta per (pochi) capitoli iconici come “Live At Pompeii”, tutta la loro arte avesse percorso binari lontani dalle figure di chi la creava. Non erano sulla copertina dei loro dischi, per cui preferivano l’enigmismo tutto simboli di Hipgnosis e Storm Thorgerson, non li vedevi sui giornali, men che meno in tv.
Dal vivo, che sarebbe la dimensione in cui il pubblico entra a contatto con un artista, stessa storia. Show visuali, costruiti su animali che volavano, laser che fendevano il cielo, video proiettati alle loro spalle ed esplosioni. Oggi, qualche collega “à la page” li definirebbe sensoriali, ma era cifra senza eguali, in un mondo dove chi sedeva nell’Olimpo, come Mick Jagger e gli Stones, ci era arrivato a suon di movenze sul palco, di paparazzate all’uscita degli alberghi, di scandali piccoli e grandi sulle proprie storie sentimentali.
Era strano, ma quando lo vidi con i miei occhi, all’Arena di Verona nel 1989, la forza di quel paradosso mi arrivò in faccia fin dalle prime note, malgrado l’insipienza cognitiva dei sedici anni: un concerto sontuoso, con loro tre piccolissimi sul palco grande come una Cattedrale. Degli operai nella fabbrica di una musica che, per lo stesso motivo, era difficile da incasellare in un genere. Non era rock, non era pop, non era (più) psichedelia. Erano i Pink Floyd. E quello era il modo in cui esprimevano la loro grandezza. Punto.
Parliamo di un gruppo riuscito a sopravvivere alla crisi creativa (uscirsene con Wish You Were Here dopo Dark Side of The Moon e con The Wall dopo Animals è come scalare sei ottomila), a quella umana (l’abbandono di una figura come Waters avrebbe messo la parola “fine” alla storia di mille altre band) e a quella dell’industria musicale (il tour 1988-9 in Italia fu “sold out” pressoché ovunque, ma chiedete sempre a Jagger & C. com’è che l’anno dopo dovettero annullare una data a Roma).
Parliamo di un gruppo oltre il suono, oltre l’immagine, anche oltre se stesso, basti pensare al concerto a Venezia. Tanto che, appunto, quindici anni dopo, vissuta da quella poltrona in un cinema del West End, dove la stampa era stata convocata per la presentazione del DVD “Pulse”, la situazione era altamente straniante. Quella volta, i tre operai erano enormi, al centro della scena. Parlavano le loro voci, ma anche i loro gesti. Avevo il trisavolo di uno smartphone con me, mi misi a filmare e fotografare, incredulo dello spettacolo cui stavo assistendo.

Il risultato, visto oggi, in era di registrazioni 4K anche con un telefono, è imbarazzante dal punto di vista qualitativo (ho ripescato da un hard disk un paio di immagini che vedete in pagina e, volendo, una clip è qui). Fa sorridere. Però, cattura e cristallizza quella occasione di incredibile “incarnazione umana” di un mito, che aveva viaggiato per decenni su tutt’altri registri. Intendiamoci, non che i tre si siano atteggiati a rockstar quella sera (Gilmour cantò perfino le canzoni, mentre un estratto del filmato veniva proiettato), anzi. Era proprio quella sensazione di normalità pervasiva a farti dire “una storia tanto grande, fatta da persone tanto semplici?”.
L’effetto fu ancora più intenso quando, finito l’evento, i nostri se ne andarono a piedi, con compagne e stuolo di nipotini. Giusto l’anno prima c’era stata l’epocale reunion del Live 8 e Richard Wright sarebbe morto due anni dopo, strappato alla vita da un tumore. Non posso dire se loro fossero coscienti di una fine prossima dell’esperienza come band, ma sono abbastanza sicuro che scelsero quel momento per consegnare al mondo l’ennesima lezione dei Pink Floyd: la semplicità non stanca mai e restare se stessi è una delle cose più complesse che esistano. Se ci riesci, la grandezza è tua.
Questa settimana, l’errabondo cronista non è certo rimasto in panciolle e ci sarebbero diverse riflessioni possibili dai fatti raccontati per Aostasera.it: l’assoluzione di Augusto Rollandin nel processo per abuso d’ufficio continuato, derivante dal ritrovamento delle lettere di patronage alle banche; l’integrazione delle stesse nell’appello alle assoluzioni di politici ed ex manager del Casinò per i finanziamenti regionali alla Casa da gioco; la segnalazione al Commissario giudiziale di due creditori del concordato Casinò, il quinto “no” del Gip alla scarcerazione di Marco Sorbara, la morte del professor Carlo Federico Grosso e, emerso in queste ore, l’appello della Procura di Milano all’assoluzione di Pasquale Longarini.
Notizie abbattutesi sulla Valle (almeno in parte) come il “Delicato Suono del Tuono” che dà il titolo ad un disco dei Pink Floyd (peraltro, proprio quello con cui li scoprì chi scrive). Tuttavia, il risveglio di buon ora ha fatto prevalere, tra le sensazioni del momento, che Rick Wright, oggi, 28 luglio, avrebbe compiuto 76 anni. La maggior parte della sua vita dietro alle tastiere se n’è andata a creare un suono senza eguali, cruciale nel dna floydiano (ascoltate in cuffia l’introduzione di “Shine On You Crazy Diamond”, vi siete mai resi conto che c’è anche un cane che abbaia?).
Non è affatto facile inseguire, per perfezionarla, la forma di qualcosa che, per sua stessa natura, è immateriale (e si può quindi solo sentire, non vedere). Allo stesso modo, per chi indaga, non è facile inseguire la verità (altrettanto “liquida”, specie se chi è oggetto della contestazione ha tutto l’interesse a celarla). Servono ostinazione (ma non cecità), convinzione nella causa (ma non ottusità), abitudine ad avere molti occhi addosso (ma non arida indifferenza) e lucidità estrema (ma non inventiva). Lo scoraggiamento è una sensazione sempre dietro l’angolo, il chiedersi chi te l’abbia fatto fare pure.

Le risposte non sono univoche, dipendono da mille fattori e hanno carattere squisitamente individuale. Un processo non finisce, come un concerto, con gli applausi, o con dei fischi. Non è così, perché i presupposti sono totalmente diversi. Tuttavia il pubblico tende sempre più a reagire ad un procedimento giudiziario come ad un evento d’intrattenimento. E’ profondamente sbagliato, oltre ad essere tendenza pericolosa ed inquietante.
Prima di regalare alla rete perle in cui, commentando un verdetto, si dice “assolto, tanto si sapeva”, o “eh, ma lo condannano perché è lui”, bisognerebbe pensare di più a cosa significhi, per chi vi si dedica e per la nostra società, quell’inseguire la verità (malgrado i presupposti differenti, la solitudine del musicista tornato nella camera d’albergo si specchia in quella di un pm a sera in ufficio, o di un giudice in camera di consiglio). E concludere che, a volte, anche il silenzio può essere una scelta. Spesso saggia.