Corruzione e paradossi

Sono così le settimane dell’errabondo cronista. Quando sembrano avviarsi verso una fine senza particolari sussulti (e, in questa, significava arrivare in scioltezza ad un bel momento di festa, qual è stata l’unione a suggello di un rapporto che, da undici anni, regala gioia alla collega Nathalie e a Fabio) succede qualcosa che azzera e spinge a rivedere tutti i ragionamenti sviluppati nei cinque giorni precedenti. E venerdì pomeriggio, cioè l’altro ieri, puntualmente è successo.

Il Gup Paolo De Paola, quasi all’ultimo giorno dell’arco temporale preannunciato, ha depositato le motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 28 marzo, aveva affiancato l’aggettivo “colpevole” al nome dell’“Imperatore” della politica valdostana Augusto Rollandin (così come a quelli di Gabriele Accornero e Gerardo Cuomo), infliggendo ai tre pene elevate e ponendo fine al processo nato dall’inchiesta che nel 2018 aveva fatto tremare Palazzo regionale, quella battezzata da Aostasera.it #corruzioneVdA.

In 165 pagine il giudice spiega il perché di quelle condanne e, sostanzialmente, per quali motivi individua nel Presidente della Giunta e nell’ex Consigliere delegato del Forte di Bard due pubblici ufficiali “imparziali” (o corrotti, fate voi) e nel titolare del “Caseificio valdostano” un privato corruttore. Sui dettagli, non tornerò in queste righe; per conoscere il “De Paola pensiero” potete leggere i pezzi dedicati al trasferimento dell’impresa alimentare nei locali ex Deval, alle forniture per il trail 4K e (siccome essere “manettari” non è mai sintomo di equilibrio) anche alle ragioni delle assoluzioni dall’accusa di associazione a delinquere.

A dar da riflettere, in questa sede, è un altro aspetto. Un giudice ha messo nero su bianco che l’azione amministrativa, da parte della figura istituzionale più importante della regione, è stata asservita ad interessi privati. E’ stata, cioè, sviata dai suoi binari naturali, che vanno verso la stazione rappresentata dal bene di una comunità. E’ successo, a quanto emerge dalla sentenza, perché i tre protagonisti principali dell’inchiesta erano troppo (pre)occupati di accrescere il loro potere, da un canto, e consolidare il posizionamento della propria azienda, dall’altro.

Si tratta, pare banale ricordarlo, ma non fa mai male, di un giudizio di primo grado e non v’è da dubitare che i difensori degli imputati (tra i quali si annovera più di un nome rilevante della “scena” legale aostana) faranno di tutto per trasformare, in Corte d’Appello, quelle 165 pagine in carta con cui arrotolare il pesce. Verosimilmente, insisteranno sul fatto che tra il malcostume politico e fatti di rilevanza penale esiste una distanza, che nel caso specifico non è stata percorsa. E’ il loro lavoro (così come è stato quello del pm Luca Ceccanti insistere nel processo aostano, anche con produzioni documentali massicce, per dimostrare le contestazioni della Procura), sono pagati per farlo ed è così che deve funzionare.

Al momento, tuttavia, quel giudizio e quelle frasi esistono. E, per chi è convinto che cultura dell’Autonomia significhi essere in grado di governarsi al di sopra di ogni sospetto, rappresentano una sconfitta. Non solo perché, proprio per effetto di quella sentenza, Rollandin è stato sospeso dalla carica di consigliere regionale (richiedendo un subentro temporaneo, con il risultato che la comunità, considerata anche la sospensione di Marco Sorbara per il regime di carcere preventivo cui è sottoposto, ha 35 consiglieri al lavoro e ne paga 37), ma per ciò che simboleggiano per la Valle.

La corruzione non incontra, nel corpo sociale, la repulsione che meriterebbe. Vi è, infatti, alla sua base un singolare paradosso, una sorta di “Sindrome di Stoccolma”. Chi entra in contatto con un pubblico ufficiale che strumentalizza il proprio mandato (e non necessariamente per soldi, ma anche per “altre utilità”, ad esempio elettorali, come quelle viste in #corruzioneVda) finisce infatti con il ricavare l’impressione di trovarsi al cospetto di qualcuno in grado di ascoltare i problemi altrui, di comprenderli, di venire incontro a chi ha di fronte. Una pantomima, che cela in realtà un grado di miseria umana tra i più elevati.

Eppure, tanti danno per buona quella rappresentazione, senza rendersi conto di come l’allontanare le opzioni politico-amministrative dal loro alveo (quello di strumenti atti a concretizzare il bene comune) sia dannoso all’ennesima potenza, perché si traduce nell’opposto di ciò che appare: nella negazione dell’ascolto dei problemi, nell’azzeramento della comprensione e nell’annientamento della solidarietà. In un sistema corrotto, aiutati ed aiutanti sono solo coloro tra i quali le “utilità” passano di mano. Tutto il resto (a partire da quella collettività che, nel caso di un politico, costituirebbe il “datore di lavoro”) semplicemente non esiste. Scompare, totalmente.

Per combattere efficacemente la corruzione, il paradosso alla sua base andrebbe disvelato senza mezzi termini. Non è semplice. La Valle non è mai stata, e non diventerà certo dopo questa sentenza, terra ove la tensione morale abbia mai fatto “tendenza”. Il processo celebrato al Tribunale di Aosta, per le vicende alla sua base e le funzioni degli imputati, vedeva quale parte civile ideale l’intera comunità valdostana, rimasta tuttavia indifesa, giacché la Regione ha scelto di non costituirsi. Il Presidente della Giunta Antonio Fosson, cui la scelta compete, a una domanda in merito ha risposto: “non era obbligatorio”. Posizione formalmente legittima, ma diventa difficile (ed anche ipocrita) non osservare come, al tempo, Rollandin fosse ancora uno dei voti della maggioranza di cui il Capo dell’Esecutivo era (ed è ancora) espressione.

Il procedimento va ora verso il secondo grado: i difensori hanno annunciato ricorso per le parti di condanna e la Procura guidata da Paolo Fortuna potrebbe non ritenersi soddisfatta dalle assoluzioni per l’associazione a delinquere e fare altrettanto. Con il suo progredire verso il giudizio definitivo sapremo se gli episodi per cui i Carabinieri, vista l’attitudine riscontrata negli indagati, non hanno esitato a pescare dalle “Catilinarie” di Cicerone per dare il nome all’inchiesta (pensando in particolare al verso “Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?” / “Fino a che punto si spingerà la tua sfrenata audacia?”), siano reato o “solo” malagestione.

Nel frattempo, visto che trarre una lezione da ciò che accade non fa mai male, risulta indifferibile una condotta, anzitutto da parte della classe dirigente della Regione, tale da segnare una differenza (specie nell’interpretazione del rapporto tra piazza Deffeyes e le società partecipate), non ingenerare dubbi od equivoci, evitando a monte che nasca l’esigenza di accertare o indagare fatti e circostanze. Una condotta ispirata alla trasparenza (anche se, al riguardo, non giungono segnali esattamente incoraggianti, come il voto contrario della Regione al bilancio del Casinò, abilmente celato tra le righe del comunicato stampa diffuso dopo l’assemblea), per ribadire che gli anticorpi del “sistema” sono fatti da persone, recuperare fiducia ed evitare ulteriori momenti di sincero imbarazzo alle istituzioni.

Difficile non provare amarezza ricordando, tra l’altro, il mattino in cui, al trapelare dei primi dettagli sull’inchiesta, Rollandin rispose nell’aula del Consiglio Valle: “Non lo posso escludere, ma non ricordo la circostanza a cui si fa riferimento” a chi gli chiedeva se fosse effettivamente stato in auto con Cuomo. A posteriori, leggendo la sentenza del Gup De Paola che abbiano viaggiato assieme è, tutto sommato, ancora elemento trascurabile. Però, pensare che la “difesa” dalla corruzione venga solo dall’alto, da chi governa, è altamente auspicabile, ma fondamentalmente utopico. Per arrivare al risultato, anche il cittadino deve fare la sua parte. In prima battuta, ricordandosi di tutto ciò quando esprime il suo voto, che resta l’arma più micidiale. Inoltre, tenendo a mente il paradosso da disvelare.

L’Amministrazione è fatta per erogare dei servizi e spesso questi non solo rispondono efficacemente ai nostri problemi, ma sono anche un diritto. Esserne coscienti, sapere a chi rivolgersi (spesso è sufficiente un funzionario, non necessariamente occorre recarsi da un amministratore), può evitare l’antipatico vezzo (purtroppo caro ad alcuni Consiglieri od Assessori nel tempo) di far passare una nostra prerogativa per un “favore” elargito in maniera magnanima (e per il quale, a quel punto, ci si sente in debito). Scardinare meccanismi del genere è il modo in cui il paradosso si disvela e, come apparirà evidente, tutto parte dalle nostre scelte quotidiane. E chi l’ha detto che essere cittadini è facile, in fondo?

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